sabato 10 novembre 2007

Goloso... come uno storico

In questi giorni ho avuto la fortuna di intervistare Massimo Montanari. Docente di Storia Medioevale a Bologna è il più importante storico italiano dell'Alimentazione, ha scritto decine di testi, collabora con Repubblica, è un punto di riferimento europeo nella ricerca sull'intreccio tra alimentazione, storia, società. L'intervista esce oggi su Due, settimanale culturale di sabatosera e settesere. Visto che molti di voi non lo leggeranno sul giornale ( che non esce a Ravenna) ve lo giro. In tempi di giovinbacco, enologica e baccanale mi sembra uno stimolo per capire meglio che cosa stia succedendo in materia. E' un po' lungo, ma i tempi di dibattito sono molti. Montanari lancia poi una critica costruttiva per i Frutti dimenticati di Casola. A presto. Massimo Isola (grazie a Massimo per il contributo)
Massimo Montanari, noto medievista imolese, spiega come studiare l’alimentazione sia studiare la vita e la cultura degli uomini, e afferma che il cibo è strumento di identità e anche di integrazione. Raccontando come l’opposizione tortellini cappelletti sia la differenza di due civiltà, dà appuntamento al Baccanale di Imola, di cui è consulente.
Massimo Montanari
vive nel centro storico di Imola, in una bellissima casa, animata da migliaia di volumi, posti in ogni minimo luogo, intervallati da quadri e ritratti, ora storici ora contemporanei. Si respira il fascino della curiosità, quella frizzante. Da sempre legato alla sua terra, è oggi un importante intellettuale europeo, uno storico di primo piano, tradotto all’estero, stimato in Italia, sia nel dibattito accademico sia in quello pubblico. La sua caratteristica principale è quella di riuscire con leggerezza e profondità ad intrecciare la ricerca scientifica alla divulgazione,quella moderna, efficace, pungente. docente universitario a Bologna, è un fine medievista che dagli anni ‘70 è impegnato in un lavoro culturale anomalo e originale: quello di affermare lo studio del «cibo come cultura»e come strumento preferenziale per comprendere le evoluzioni e le intersezioni della storia dell’uomo. L’immagine che meglio lo caratterizza è la descrizione che fa dello storico un maestro del Novecento, Marc Bloch: «Lo storico è un orco che ricerca e si nutre di carne umana».

Ma qual è per Montanari l’approccio storico? Chi è lo storico?
«L’immagine di Bloch la condivido in pieno – afferma -. Fare lo storico significa essere curiosi di ricostruire la vita dell’uomo e delle società nello spazio e nel tempo. Nostro obiettivo deve essere quello di capire come si viveva nel passato, non ci occupiamo di antiquariato. Sia nello studio del medioevo sia in quello dell’alimentazione mi muovo sempre su queste coordinate. Per questo studio le patate, il pomodoro o la pasta, intesi come strumenti della vita degli uomini,come luoghi della cultura di una civiltà. Viceversa mi occuperei di botanica o di agraria, ma questo non lo faccio».
Il dibattito storico europeo, soprattutto legato al medioevo,da anni è animato da alcuni ricercatori come lei, Fumagalli, Le Goff , storici attenti alla «storia sociale», al vissuto e all’immaginario delle comunità e degli individui più che alla organizzazione del potere. Siete stati pionieri?
«Già Bloch tra le due guerre affermava questa necessità. Abbiamo compreso la sua lezione, evitando di contrapporre la storia della vita delle persone a quella delle istituzioni. Le due storie devono essere intrecciate, devono essere parte di una stessa ricerca. Pensoper esempio che la storia dell’alimentazione non sia uno studio a parte, ma sia un luogo di ricerca importante all’interno del quale verificare le contaminazioni tra storia delle istituzioni e del potere e storia del vissuto quotidiano,del “fare” di una civiltà. Le scelte alimentari di una comunità non si comprendono se non all’interno di un processo storico, di un percorso culturale,di determinate coordinate istituzionali. L’alimentazione rappresentale idee che gli uomini hanno prodotto per immaginare il mondo». Direi che avete centrato l’obiettivo,oggi gran parte degli studi storici vanno in questa direzione. Nel Novecento quest’approccio si è affermato ed è superatala distinzione tra storia pubblica e privata, in nome della intersezione dei campi di ricerca».
Lo studio del medioevo ha rafforzato questa tendenza?
«Certamente. Forse grazie alla distanza e alla presenza di meno documenti. E’ stata la prima a rinnovarsi, costruendo una sorta di prospettiva antropologica».
Lo studio dell’alimentazione in Italia è legato al suo nome. Come ha costruito questo grande sentiero?
«Quando negli anni ’70 sono partito devo dire che ero osservato con attenzione e stupore dagli accademici, oggi non è più così. Abbiamo aperto un fi lonedi studi. Oggi è entrata a pieno titolo nelle Università, a Bologna esiste l’esame di “Storia dell’alimentazione”che ha coinvolto centinaia di studenti e nuovi ricercatori, poi abbiamo fondato un master europeo, e ancorale esperienze di Slow Food e di Pollenzo. Abbiamo sedimentato l’idea che dietro all’alimentazione ci sia la storia della cultura».
Così, è possibile leggere nella opposizione tortellini-cappelletti la storia di due civiltà che si scontrano?
«Sì. I cappelletti ravennati contengono solo formaggio, derivato dalla pecora, simbolo della cultura romana e bizantina, viva in Romagna, mentre i tortellini contengono anche carne di maiale,simbolo della cultura longobarda,dell’Emilia contaminata dalle culture del centro Europa. Si tratta di una piccola metafora che sintetizza come ogni cibo rifletta una storia, un intreccio di vicende che coinvolgono le storie individuali e collettive».Per questo a Castel San Pietro esistono macellerie ovine?«Sì, perché siamo nel confine tra le due culture. La pecora era ed è affrontata con diffidenza in Emilia, e come tale nella frontiera,e non per motivi commerciali,viene venduta in un luogo ad hoc. Se la nostra regione è composta da due nomi è perché per secoli hanno convissuto due culture che noi storici abbiamo analizzato».
Da anni si diffonde l’idea di promuovere dei territori insieme ai rispettivi prodotti e sapori. Sull’onda del grande lavoro di Slow Food e di tante realtà diffuse, sono nati progetti, festival,eventi. Tra questi emerge il Baccanale di Imola, del quale lei è consulente. Come valuta questa tendenza?
«In modo positivo. Che cibo e territorio viaggino insieme è oramai un dato certo, e questo è un segnale positivo. Il Baccanale non è una grande abbuffata ma un evento nel quale la riflessione culturale è centrale. Incontri,mostre, confronti, per due settimane si riflette sul cibo inteso come strumento di una civiltà,di una cultura».Il cibo è quindi strumento per costruire una identità. Allo stesso tempo però, soprattutto in epoche globali, è anche strumento di integrazione tra «diversi».
Come convivono questi opposti?
«Io penso che le identità siano mobili, e lo studio dell’alimentazione lo conferma. I cibi sono prodotti della storia e della geografia, non ci sono dubbi, ma viaggiano, come gli uomini. Così il piatto tipico italiano sono gli spaghetti al pomodoro. La pasta proviene dal Medio Oriente,il pomodoro dalle Americhe, e solo dall’Ottocento questo piatto diventa simbolo di una identità. Allo stesso tempo già si vedono abbinamenti tra tortellini e cous cous, e non mi sorprendo. Ritengo che le culture nascano mettendo insieme frammenti di diverse identità e giudico un errore il razzismo gastronomico. Non ha senso chiudere le rispettive culture alimentari, anzi penso che una cultura sia tanto più forte quanto più varie e colorate siano le radici provenienti da altre identità».
In queste settimane in collina si festeggiano i frutti dimenticati. Un poeta dice che la felicità si apprezza fino in fondo quando esce di scena. E’ successo questo anche per questi frutti nell’epoca dell’abbondanza?
«E’ possibile. Si tratta di frutti propri di una società secolare da anni abbandonati perché non compatibili con i nuovi stili di vita. Con loro si era perso un patrimonio umano, sociale, culturale. Il lavoro fatto a Casola Valsenioè stato importante ma orasi dovrebbe fare un passo avanti. Siamo nella fase matura della società dell’abbondanza ed ora quei frutti non sono più dimenticati,ma riscoperti: fermarsi all’assenza significa fermarsi al folclore, il concetto di recupero coincide invece con un percorso culturale».
In questi giorni Enologica a Faenza e Giovinbacco a Ravenna affermano le virtù di un nostro simbolo alimentare, il vino. Siamo ancora di fronte alla mobilità delle identità?
«Credo di sì. Il vino nasce in Medio Oriente, poi le civiltà europee e la cultura cristiana l’hanno valorizzato, a differenza di quanto successo in altre sponde del Mediterraneo. Si è trattato di una vera e propria migrazione. In questi anni è cresciuta una forte domanda di qualità, ed è una novità. In passato solo piccole nicchie sociali cercavano la qualità nel vino, oggi è una tendenza diffusa». Massimo Isola (GPS)

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