Sette soldati americani in Iraq hanno scritto un editoriale sul New York Times per denunciare molti dei fallimenti della politica americana in quel paese. Secondo i sette militari - il soldato Buddhika Jayamaha e i sergenti Wesley Smith, Jeremy Roebuck, Omar Mora, Edward Sandmeier, Yance T. Gray e Jeremy Murphy - il fronte più importante nella strategia della contro-insurrezione, vale a dire il miglioramento delle condizioni sociali ed economiche dell’Iraq, è quello «in cui l’America ha fallito più miseramente».
«Quattro anni di occupazione e siamo venuti meno a ogni promessa, mentre abbiamo sostituito alla tirannia del partito Baath la tirannia degli integralisti islamici, delle milizie e della violenza criminale». I sette militari fanno parte della 82esima divisione aerotrasportata e presto faranno ritorno in patria. Certo, la loro opinione è strettamente personale ed è motivata dal modo con cui il conflitto in Iraq viene descritto nella stampa americana come «sempre più sotto controllo, mentre non si parla del crescente disordine civile, politico e sociale che vediamo ogni giorno».
«È vero, siamo militarmente superiori, ma i nostri successi sono sabotati da fallimenti altrove» affermano i militari. Ma non è questo che deve far dormire sonni tranquilli. Inoltre, accusano sia l’esercito iracheno, che le numerose milizie presenti sul territorio, di essere spesso un ostacolo per la loro presenza, se non addirittura siano essi stessi ad aiutare nel piazzare ordigni e mine contro gli americani stessi. Questo a causa di una catena di comando incoerente, con persone che eseguono unicamente gli ordini delle loro milizie. Da un punto di vista militare, la situazione è davvero compromessa secondo i soldait: «Anche se abbiamo la volontà e la forza per combattere in questo contesto, siamo di fatto impotenti perché la realtà sul campo richiede misure che ci rifiuteremo sempre di prendere, ovvero un uso massivo di forze brutali e letali».
In una situazione in cui oggi gli iracheni chiedono sicurezza, e non cibo, la conclusione è amara: «Dobbiamo ammettere che al nostra presenza ha liberato gli iracheni dalla morsa di un tiranno, ma che li abbiamo anche defraudati dal rispetto per se stessi». Presto - scrivono i sette - gli iracheni capiranno che «il modo migliore di riacquistare la loro dignità è di chiamarci per quel che siamo - un esercito di occupazione - e di costringerci a fare le valigie».
E se se ne sono accorti i soldati al fronte, mi chiedo quanto ci vorrà ancora ai vertici politici, teoricamente più “informati”, a prendere una decisione relativa al cambiamento di politica in Iraq. Il numero complessivo dei soldati statunitensi caduti durante la campagna irachena dal marzo 2003 ha raggiunto il numero di 3.500 GPS
«Quattro anni di occupazione e siamo venuti meno a ogni promessa, mentre abbiamo sostituito alla tirannia del partito Baath la tirannia degli integralisti islamici, delle milizie e della violenza criminale». I sette militari fanno parte della 82esima divisione aerotrasportata e presto faranno ritorno in patria. Certo, la loro opinione è strettamente personale ed è motivata dal modo con cui il conflitto in Iraq viene descritto nella stampa americana come «sempre più sotto controllo, mentre non si parla del crescente disordine civile, politico e sociale che vediamo ogni giorno».
«È vero, siamo militarmente superiori, ma i nostri successi sono sabotati da fallimenti altrove» affermano i militari. Ma non è questo che deve far dormire sonni tranquilli. Inoltre, accusano sia l’esercito iracheno, che le numerose milizie presenti sul territorio, di essere spesso un ostacolo per la loro presenza, se non addirittura siano essi stessi ad aiutare nel piazzare ordigni e mine contro gli americani stessi. Questo a causa di una catena di comando incoerente, con persone che eseguono unicamente gli ordini delle loro milizie. Da un punto di vista militare, la situazione è davvero compromessa secondo i soldait: «Anche se abbiamo la volontà e la forza per combattere in questo contesto, siamo di fatto impotenti perché la realtà sul campo richiede misure che ci rifiuteremo sempre di prendere, ovvero un uso massivo di forze brutali e letali».
In una situazione in cui oggi gli iracheni chiedono sicurezza, e non cibo, la conclusione è amara: «Dobbiamo ammettere che al nostra presenza ha liberato gli iracheni dalla morsa di un tiranno, ma che li abbiamo anche defraudati dal rispetto per se stessi». Presto - scrivono i sette - gli iracheni capiranno che «il modo migliore di riacquistare la loro dignità è di chiamarci per quel che siamo - un esercito di occupazione - e di costringerci a fare le valigie».
E se se ne sono accorti i soldati al fronte, mi chiedo quanto ci vorrà ancora ai vertici politici, teoricamente più “informati”, a prendere una decisione relativa al cambiamento di politica in Iraq. Il numero complessivo dei soldati statunitensi caduti durante la campagna irachena dal marzo 2003 ha raggiunto il numero di 3.500 GPS
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